di Lorenza Del Tosto
Con piacere pubblichiamo un nuovo articolo della nostra amica Lorenza, che ha partecipato, come interprete, all’intervista di Ropert Goold, regista del film Judy, presentato alla Festa del Cinema di Roma, 2019 , di cui ci regala un ritratto assolutamente originale e composito.
“La vita di Judy Garland è già stata raccontata tante volte. Lei cosa vorrebbe che restasse, in particolare, agli spettatori della sua Judy?” Chiede la giornalista con occhi luminosi a Rupert Goold regista britannico: camicia jeans, occhi scuri, fluenti capelli ondulati, venuto a presentare il film alla Festa di Roma.
E’ una domanda di rigore, tra tanti film, tante interviste e il poco tempo, bisogna andare all’essenza delle cose. Ma lui Rupert sembra provarne un leggero timore.
“Io vengo dal teatro, dall’opera, anzi la prima opera che ho diretto è stata proprio qui in Italia, dal musical.”
Forse i registi di teatro non sono più abituati ad avere tante luci puntate addosso e televisioni che incalzano una dietro l’altra, con i loro microfoni. Forse non più.
Magari si è presentato alle interviste immaginando una routine, una sorta di fatica inutile da sbrigare in fretta e ad ogni breve pausa, tra un giornalista e l’altro, si tuffa sul cellulare, le dita velocissime sulla tastiera.
O magari non si aspettava che ai giornalisti piacessero tanto il suo film e la sua protagonista: Renée Zellweger capace di trasmettere una tale carica vitale, un tale meraviglioso coraggio di donna, che è stata vittima, ma soprattutto combattente, e continua ad infrangere ogni regola con feroce umorismo.
Una rock star ante litteram. Una sopravvissuta pronta a ripartire ogni volta. E’ questa carica di umanità che la stampa vorrebbe ritrovare anche in lui. Cosa non facile: chiusi in una stanza gelida e buia, con interviste da tre minuti, nella frenesia del Festival.
Rupert Goold, prima che gli venisse proposto il progetto, ammette, non sapeva granché di Judy Garland, non era certo tra i suoi fan.
Ma ora ha scoperto, di lei, cose che lo hanno colpito. Ci sono interviste bellissime, biografie – ognuno dei suoi cinque mariti ne ha scritta una – testimonianze, soprattutto quella della sua assistente a Londra e quindi, superato l’iniziale timore, spiega:
“Vorrei che restasse la sua ironia, la sua capacità di ridere nei momenti più bui, anche di fronte alle circostanze più avverse. E’ incredibile che le sue canzoni siano così gioiose se si pensa alla vita che ha avuto. In un certo senso vorrei che restasse la speranza: anche quando tocchi il fondo può esserci una sorpresa dietro l’angolo e, magari, la possibilità di ricevere amore in posti estranei, dalle persone più inaspettate.”
Inaspettato come il successo del film che racconta Judy a 47 anni, pochi mesi prima della morte quando il suo astro è ormai in declino. Ha problemi con il divorzio, con l’affido dei figli, è totalmente al verde, in America non ha più lavoro, ed è costretta ad un tour forzato a Londra dove ancora la gente pagherà per ascoltarla. (Anche se qualcuno verrà ogni sera per voyeurismo, nell’attesa di vederla collassare). E insieme il film introduce ricordi, in flashback, di Judy bambina che interpreta Dorothy ne Il Mago di Oz. Una Judy oppressa dallo star system hollywoodiano, bullizzata e privata dell’infanzia. Un periodo di cui si porterà per sempre dietro i segni: l’insonnia e la solitudine. “Mi ha veramente stupito vedere quanto la Hollywood dell’età dell’oro schiacciasse le persone”.
“A differenza di un biopic tradizionale il suo film presenta solo l’inizio e la fine della vita di Judy, come in una tragedia greca. Perché questa scelta?” Gli chiedono.
Goold sorride sorpreso.
Lo sorprendono questi giornalisti italiani, non sono male le loro domande che in tre minuti riescono a toccare il cuore caldo delle cose anche quaggiù in questo studio dell’Auditorium dove lui sta gelando. Ha provato a chiedere di alzare un poco la temperatura, ma a quanto pare non si può.
E intanto lassù, nella luce e nel sole, sfilano le star vere e quelle di un giorno, la ricca umanità sorprendente della Festa di Roma, imitatori di gente famosa, inventori di vite famose. Donne, madri e figlie coperte di veli, in cerca di fotografi, di un colpo di fortuna, di qualcuno che le noti e le riscatti, al braccio di mariti impacciati ma sempre compunti, chissà che invece non siano loro ad essere scoperti, in questo mondo unisex.
Al riparo dalla loro sfilata noi ce ne stiamo qui, nella penombra fredda, che poi non è così diversa dal rovescio della fama.
“Io credo che i semi della fine vengano gettati all’inizio della vita.” La voce di Goold ci strappa ai nostri pensieri. “Mi interessa il momento, nel percorso di certi artisti, in cui non possono più fare affidamento su ciò che li ha resi famosi. E’ vero per Judy. E’ vero per Leonard Cohen e per Johnny Cash.
E comunque c’è un rapporto causale tra la Dorothy de Il mago di Oz che vorrebbe tornare a casa e deve fermarsi invece in terra straniera e la Judy della fine che per guadagnare i soldi che le permetteranno di vivere con i figli, deve lavorare da sola a Londra.”
Londra, terra straniera, che offre però anche un calore al suo personaggio, getta su di lei la luce europea della swinging London, con la sua pioggia e il suo amore per l’arte al di là dello star system americano. Incurante dei suoi debiti, l’Europa può amare una voce così bella che sa ancora parlare al cuore anche se ormai è logorata dal tempo, dagli stravizi, dalle difficoltà della vita.
Ci sono altre affinità più sottili tra Dorothy e Judy, tra gli inizi e la fine, che emergono lentamente perché Rupert Goold esita a parlare di aspetti che nel film sono solo accennati, come una forma di pudore: come Dorothy ne Il mago di Oz accoglie ed è un riferimento per i diversi, per quelli a cui manca qualcosa: lo Spaventapasseri, che voleva un cervello, il Boscaiolo di Latta, che voleva un cuore, e il Leone Fifone, che voleva un po’ più di coraggio, così Judy Garland è diventata un simbolo per la comunità LGBT, che certo non aveva all’epoca vita più facile. Lei stessa era una persona ai margini.
“C’è in lei un’estrema femminilità unita ad un che di mascolino.”Spiega il regista “Suo padre era gay e si è cercata i suoi mariti tra uomini gay o almeno bisessuali” Ma è commento veloce, spiegazioni non necessarie, come un pettegolezzo strappato a denti stretti.
Il buio in cui siamo immersi torna ad accendersi ad ogni domanda: gli occhi dei giornalisti brillano quando chiedono di lei, della divina Renée Zellweger.
Incantevole, grandissima, non se ne ha mai abbastanza. Si avrebbe voglia di non smettere più di guardarla e continui a portartela dentro: con la sua schiena curva, con la sua mimica facciale, con le sue battute folgoranti.
“Ha mai preso niente per la depressione?”
“Sì quattro mariti, ma non sono serviti a niente”
Rivedi quegli occhi che diventano tristi, e un istante dopo riprendono a giocare, pronti a tuffarsi nel gioco della vita, è lei la luce che riempie questa penombra, che scalda le mani nel sotterraneo, immortalata nei tanti primi piani del film.
“Ci sono molti primi piani in questo film.” Gli fanno notare.
“Forse è la novità del mezzo che mi ha preso la mano, ne volevo approfittare” si giustifica Goold come se lo avessero colto a rubare marmellata “a teatro vedi tutto da una tale distanza…Volevo catturare gli occhi, il viso, il collo.”
Mostrare in primo piano le emozioni che il teatro gli ha permesso di conoscere nel backstage. Il dietro le quinte degli attori: il terrore del palco, e insieme l’euforia, e il bisogno del palco, la dipendenza dal palco, sua moglie è attrice e conosce la lotta di una vita divisa tra teatro e famiglia. Non voleva rubarli solo nei camerini quegli sguardi voleva portarli sulla scena.
Renée Zellweger è perfetta: la voce, la taglia minuta, la qualità della star. Solo una star poteva capire un’altra star.
“Era un aspetto importante: l’idea che in strada tutti ti conoscono. Tutti ti fermano, tutti credono che tu debba conoscerli.”
La solitudine è un tema costante per Judy Garland e si sente nel film, presenza palpabile quando arriva a Londra, separata dai figli piccoli che adora e si ritrova in una stanza d’albergo sontuosa, enorme, ma fredda e tanto vuota. Le persone che l’accompagnano se ne vanno, la porta si chiude alle loro spalle e lei resta lì sola. E ti chiedi come passeranno le sue ore fino al prossimo spettacolo? Lei che di notte non riesce a dormire. Di cosa si riempirà ogni giorno ora che i figli non ci sono …ora che i mariti non sono serviti.
“Ci sono delle interviste” spiega il regista “di quel periodo dove la Garland sembra perdersi in discorsi filosofici sulla solitudine, Come è possibile essere famosi e insieme tanto soli?”
Per assurdo il palco, dove si esibisce da sola, è l’unico antidoto alla solitudine, l’amore dei fan l’unica compagnia.
“Qual è la sua scena preferita del film?” Gli chiedono
“Forse è la scena in cui lei torna a casa da sola nella luce dell’alba: è riuscita a dare conforto ai suoi fan, ma non è riuscita a riceverlo.”
Renée Zellweger è tutto questo. “Era terrorizzata all’idea di cantare, ma poi è stata splendida. Quando è stata scelta per il ruolo di Bridget Jones, un’americana, gracile, gli inglesi hanno gridato allo scandalo, ma poi alla fine è riuscita a convincere tutti.
Mi ha raccontato che si era esaurita lavorando, e ha lasciato tutto per sei anni. E ora ha dato il meglio di sé: un’attrice che conosce tutti gli aspetti tecnici, ma ha l’energia, la freschezza, e la fame disperata della scena dopo sei anni di assenza. Non voglio la Garland, voglio René che interpreta la Garland, le dicevo.”
Ci sono le scene meravigliose, quei colori ripresi da Il Mago di Oz, dalla continua illusione creata dalla macchina infernale di Hollywood e c’è un glamour impalpabile onnipresente che riempie lo schermo.
“Se vuoi mostrare la prigione non scegliere le sbarre, mettici piuttosto un carcerato,” spiega Goold d’un tratto contento, d’un tratto tornato nel suo campo: i dettagli che costruiscono una scena: “Allo stesso modo se vuoi del glamour metti la donna di glamour e il gioco è fatto. “
Lo sente, Rupert Goold, che ora, a interviste finite, la fame di Renée Zellweger, il desiderio di vederla, resta, si vorrebbe scoprire il suo segreto e parlare con lei della devastante solitudine e dell’allegria, dell’irriverenza che ha portato sullo schermo e ha lasciato nei nostri cuori, ma Rupert Goold ha fatto quello che ha potuto, si è lasciato prendere dall’entusiasmo descrivendo la realizzazione di qualche scena, ma il film è di Renée ed ora lui è felice, è chiaro, di sparire dietro le quinte. “Il teatro è l’arte dell’argomentazione, della discussione” ha detto “esci da teatro e hai voglia di parlare dei grandi temi, la televisione è l’arte della narrativa come un romanzo, il cinema è l’arte del personaggio. Ti permette di entrarci, di studiarlo, indagarlo, metterlo a nudo. E a me piace scavare nel fiume nascosto che scorre dentro ogni attore, Mi piace creare la fiducia che permette all’attore di aprirsi e di dire la sua verità.” E ci è riuscito con Renée che si è riversata nella Garland ed è andata al di là della perfezione. Ma oggi lei non è qui, non è a Roma.
E Rupert Goold non vuole certo che magari le televisioni adesso si mettano ad indagare dentro di lui. Forse era questo il suo vero timore. Non è lui il personaggio. La macchina da presa ti mette troppo a nudo.
Questo è il suo secondo film, il primo (True story, accolto dalla critica piuttosto freddamente) era basato su una storia vera, e il secondo su una persona vera.
“Perché questo bisogno di realtà?” Gli hanno chiesto. “Perché a volte quando costruisci una storia e la inventi, ci sono momenti in cui ti chiedi: ma non è un po’ ridicolo?” Ha risposto con imbarazzo “Come se stessi solo giocando, ti chiedi: ma a chi serve questa cosa? Forse stare nella realtà, raccontare cose vere ti fa sentire meno inutile.”
Sorride prima di scomparire nel buio, inghiottito dalle quinte, anche lui come Dorothy, come Judy ha voglia di tornare a casa. A scaldarsi al calore del suo teatro.
Al mondo senza microfoni, senza telecamere che ti scavano nel viso, negli occhi, tra le pieghe del collo, in attesa di una tua risposta.
Grazie Lorenza, ho capito meglio Judy Garland e non sapevo della crisi di 6 anni di Renee Zellweger. Un abbraccio. A presto.
Ma i semi della fine vengono gettati all’inizio della vita davvero?
Pino