di Pino Moroni
Artapartofculture.net
Riproponiamo la recensione di Parasite, dopo la grandiosa vittoria agli Oscar: miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura originale, e, per la prima volta, miglior film internazionale! Un’occasione per vederlo o rivederlo, sicuramente per capire meglio il messaggio che veicola.
Perché il cinema coreano sta diventando così importante da vincere la Palma d’oro a Cannes e candidarsi con successo come miglior film straniero ai prossimi Oscar? E perché, malgrado la forte idiosincrasia dell’occidente verso i noiosi e lenti film orientali, l’uscita dell’ultimo film sud-coreano, Parasite, oltre alle buone recensioni, ha mostrato ottimi riscontri al botteghino?
La risposta è che il divario delle tematiche e delle realizzazioni tra le due cinematografie mondiali sta affievolendosi. Con i suoi pregi e i suoi difetti Parasite è una pellicola che parla di due famiglie (i poveri Ki-taek ed i ricchi Park), con i loro piccoli grandi problemi quotidiani, che potrebbero essere ovunque ed agire con le stesse dinamiche narrate dallo sceneggiatore regista Bong Joon-ho (Snowpiercer, Okjia).
Dinamiche però non convenzionali, come nei prodotti fotocopia del cinema europeo ed americano, perché in questo film chi fa la storia, organizza piani, chi ha l’ingegno e lo mette a frutto, usando un bagaglio di conoscenza dato dalla sopravvivenza e non frutto di studi universitari economico-tecnologici, è l’emarginato della società.
Rovesciando il teorema: poveri ignoranti e sempliciotti e ricchi istruiti, furbi e intraprendenti. Dalla parte di tutti i parassiti (scarafaggi od umani che siano) che qui si chiamano indigenti senza lavoro, sempre alla ricerca di un espediente per sopravvivere.
La famiglia Ki-taek (padre, madre e due giovani figli) vive in un puzzolente seminterrato adibito ad abitazione, sotto il livello di una strada, subendone il rumore, l’inquinamento, gli allagamenti e le esternazioni corporee degli ubriachi. La famiglia Park (padre, madre e due figli ancora adolescenti) vive in una villa, disegnata da un architetto, moderna, luminosa, elegante, tecnologica. Una enorme vetrata su un prato verde interno, circondato da numerosi alberi pregiati.
La prima parte del film in cui una stupenda scenografia (Ha-Jung Lee) creata nei teatri di posa e funzionale alla smagliante fotografia (Kyung-pyo Hong) fa da perfetto sfondo alle strategie messe in atto dalla famiglia Ki-taek per vampirizzare i membri della supponente credulona famiglia Park.
Tutti i componenti riescono, usando più o meno leciti espedienti a diventare autista, cuoca, ed educatori dei figli della famiglia Park. Soprattutto ai due giovani Ki-taek, abili mistificatori di carriere universitarie inesistenti, pseudo psicologi e critici d’arte, spetta il compito di irretire sul piano intellettuale la famiglia Park. Vivendo due vite e società e sognando, vista l’ingenuità dei ricchi, di sostituirsi a loro. Iniziando a prendere possesso della casa nel momento in cui i Park sono in vacanza.
Fin qui dice il regista coreano tutto rientra nell’ordine prestabilito e nelle regole generali di una società evoluta, che fa parte dei paesi più sviluppati (viene nominata l’Ocse, n.d.r.) e produce un reddito annuo alto non ben redistribuito. Ecco il punto chiave in cui le due cinematografie (orientale ed occidentale) convergono nel raccontare il presente: i sistemi economici sono ormai omologati e sono omologate anche le strategie di parassitismo del benessere, ovunque.
Ma quando il caso arriva a rompere gli equilibri precari di un sistema ed allo stesso tempo le strategie ed i piani organizzati all’interno di esso dai singoli, un buio pericoloso fatto di misteri, di stanze segrete, di ospiti inattesi e concorrenti, di violenza repressa, invade la luminosa bellezza di ogni ambiente e la serenità delle persone. E nella natura come nella società si scatena l’inferno.
E’ un cambio di registro impressionante quello del regista Bong Joon-ho. Tutto viene filmato con un taglio caos-geometrico, fuori e dentro la casa, in cui ciò che avviene è fuori il controllo di tutti i protagonisti, ma per il regista confluisce in un mosaico filmico in cui tutti i pezzi si incastrano. E’ il momento migliore di un film non convenzionale e dirompente.
Nella parte finale per sciogliere tutti i dubbi su una convivenza forzata tra poveri arrabbiati e ricchi spreconi, in un party grottesco per un bambino viziato, il regista coreano cambia ancora registro e si misura con un caos-splatter, con coltelli, spiedi e sangue, in cui tutto sembra fuori controllo, ma che riesce a gestire con un montaggio di grande professionalità (Jonma Yang) senza cadere nel ridicolo. E’ pur sempre, come ormai sembra necessario mostrare in moltissime pellicole, un pezzo da horror gratuito, ma forse molto funzionale al messaggio di violenza politica che il regista voleva mandare.
Con un finale che sconfina nel fantasy, in cui i parassiti poveri, come in un sogno prendono possesso della casa dei ricchi. Musica eccezionale di Jung Jaeil II, nei suoi differenti stili tra classico e moderno con la sorpresa di sentire anche la canzone In ginocchio da te cantata da Gianni Morandi.