di Sandro Russo
Nel 2006 mi trovai a fare il primo Corso di Critica Cinematografica organizzato dalla Scuola di Cinema Sentieri Selvaggi, ancora nella storica sede di via Urbana. Fu un anno notevole, nella storia della scuola, per numero di partecipanti (eravamo 18), per la personalità dei docenti e degli allievi, per i risultati ottenuti. A coronamento del percorso formativo, organizzammo una vera Rassegna Cinematografica – intitolata “Qualcosa è cambiato” – che si svolse presso il Circolo degli Artisti di via Casilina Vecchia, di cui curammo tutta l’organizzazione, dal principio alla fine, ovvero: la scelta della sede, le autorizzazioni, la selezione dei film, il Catalogo e la promozione, inclusi i rapporti con la stampa. Un momento centrale fu la selezione dei film, perché da una rosa di circa ottanta, ne selezionammo una cinquantina, per poi proiettarne 18 nei sette giorni che durò la Rassegna. Ricordo ancora l’entusiasmo, il fervore delle discussioni, la concentrazione con cui ciascuno seguiva e partecipava alle scelte degli altri.
Dal Catalogo della Rassegna, ambientato in due parti, una prima in cui ciascuno spiegava cos’era per lui o per lei il cambiamento e una seconda, con le schede dei singoli film, è appunto tratto questo scritto su “La doppia vita di Veronica”
La doppia vita di Veronica
Titolo originale: La double vie de Veronique
Origine: Francia / Polonia / Norvegia, 1991
Durata: 98 min.
Regia: Krzysztof Kieslowski
Sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz
Genere: drammatico
Interpreti: Irène Jacob, Philippe Volter, Claude Duneton, Sandrine Dumas, Louis Ducreux, Aleksander Bardini
TRAMA: Una ragazza polacca, Weronica, e una francese, Vèronique, pur non avendo nessun legame, sono uguali come gocce d’acqua, hanno lo stesso amore per la musica e la stessa malformazione al cuore. Per una misteriosa corrispondenza, la francese farà tesoro della tragica esperienza dell’altra.
Partiture per voci gemelle
di Marina Parziale
Coro
«O voi, che siete in piccoletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti/
retro al mio legno che cantando varca, //tornate a riveder li vostri liti:/
non vi mettete in pelago; chè forse, /perdendo me, rimarreste smarriti. //
L’acqua ch’io prendo giammai non si corse; / Minerva spira, e conducemi Apollo / e nove Muse mi dimostran l’Orse»
Un film fatto di sole emozioni. Così Kieslowski ha definito La doppia vita di Veronica.
Se fosse stato un libro avrebbe potuto scriverlo Kundera, il poeta degli impalpabili moti dell’anima. Se fosse stato una pittura avrebbe potuto avere le forme oniriche e visionarie di un Dalì e le trasparenze metafisiche di un Monet, di un De Chirico o di un Magritte.
Se lo volessimo cucinare dovremmo creare una spuma dalla consistenza indefinibile, dal gusto languido e scioglievole, speziato di aromi inafferrabili.
Un film fatto di emozioni intime che trascendono il reale, che compongono lo spirituale a partire dalle immagini, dai gesti, dai simboli, dai volti, le espressioni, i movimenti, le lacrime. Serve poco la parola. Il suono necessario e sufficiente diventa musica. Una musica che amalgama la struttura narrativa e la dipana sulle note e le parole di un coro. Un coro che torna, e ritorna, penetra sotto la pelle e si insinua a lungo nella mente come un eco oltre lo schermo spento.
Lo splendido coro di Van Den Budenmayer usa le parole di Dante nel prologo del Paradiso per dirci che il film non va letto e interpretato razionalmente ma va sentito, con la pancia, con le viscere, con apertura alla sfera del poetico. Un film fatto di emozioni che virano al rosso, di emozioni che odorano di erba bagnata. Come la pelle sorridente colpita dalla pioggia, come la bellezza di un viso avvolto dal pulviscolo, come il mondo guardato
da una sfera di gomma, la terra vista dall’interno di una bara, come la marionetta ballerina che muore e rinasce farfalla. È il mondo visto con gli occhi di un bambino: ciò che si avverte senza poterlo spiegare è letto con l’immaginazione, in una danza della fantasia in grado di ricomporre i misteri e di restituire al mondo una bellezza sempreverde.
La doppia vita di Veronica mette a nudo le sfaccettature di un’anima. Kieslowski rompe il concetto monolitico di identità, sdoppia gli elementi della persona ma il gioco potrebbe replicarsi all’infinito in movimenti circolari dove coincidono l’inizio e la fine, l’andare ed il tornare, la vita e la morte. Proprio dalla morte riprende la vita, in un continuum armonioso e senza strappi. La morte di Veronika è immediatamente seguita da una scena in cui Veronique fa l’amore, dal buio della terra alla luce di una lampadina che illumina la bellezza dei corpi, lo scorrere di vibrazioni ed il sospirare del piacere. Possiamo sopportare la morte di Veronika perché ci viene offerta la vita di Veronique, non c’è immobilismo, non c’è perdita che desertifica, la morte sembra quasi un passaggio naturale e necessario che genera cambiamenti. Veronika ha sentito inspiegabilmente di non essere sola al mondo e, pacificata da questa illuminazione, muore cantando.
Veronique, nel fare l’amore, avverte confusamente un senso di perdita, di tristezza per qualcuno, e si sente sola, profondamente sola. E qualcosa cambia dentro di lei. La sua apertura alle sensazioni e ai “segnali” dell’anima muta il corso della sua esistenza, aprendo quel viaggio alla ricerca di sé che porta all’amore.
Perché la vita è al contempo qui e altrove.