di Patrizia Montani
Quando ero bambina leggevo molti e diversi libri, in gran parte dimenticati: ricordo tutti i libri di Rodari ( riletti con i miei figli), Cuore ( spassosa rilettura con Umberto Eco[1]), I ragazzi della via Paal ( un intero pomeriggio a piangere per la morte di Nemesek), Il piccolo principe (troppo osannato, mai compreso).
Ma più di tutti Pinocchio.
Le emozioni che provai nel leggerlo furono vivissime: la delusione per l’ambientazione cupa e realistica della provincia toscana ottocentesca, lo squallore della povertà materiale e affettiva dei personaggi, l’impossibilità di qualsiasi identificazione col protagonista, la descrizione di una famiglia disastrata (padre single e anziano, madre assente (più propriamente alternante), con inquietanti capelli turchini.
A quei tempi (quelli della mia infanzia), i bambini non avevano uno dei diritti fondamentali del bambino- lettore: non potevano non finire di leggere un libro! Oltretutto si sentivano costretti a fare esattamente tutte le cose che gli adulti si aspettavano da loro (ed erano molte). Così finii di leggerlo, ma come disse Nonmiricordochì, gliela feci pagare.
Pinocchio sarebbe stato uno dei tanti libri da me letti e dimenticati, se non fosse tuttora considerato uno dei pochissimi capolavori mondiali della letteratura per l’infanzia, con centinaia di edizioni e traduzioni in quasi tutte le lingue .
Di tanto in tanto esce un nuovo saggio, una nuova lettura, un nuovo film , una originale trasposizione teatrale.
La critica letteraria contemporanea stroncò Collodi, considerato, a differenza di De Amicis, indifferente ai problemi sociali.
Il fascismo cercò di impossessarsi del burattino considerandolo spudoratamente “patriottico”; nel secondo dopoguerra invece quasi tutti i critici letterari apprezzarono ed esaltarono Pinocchio, tra loro Zavattini, Eco, Rodari, Manganelli, Merlo.
Decine di film furono tratti dal romanzo, il primo fu Pinocchio di Walt Disney del 1940.
Il più bello, credo, quello di Comencini del 1972, sei puntate per la TV, sceneggiato con Suso Cecchi D’Amico. Nino Manfredi, poetico e malinconico Geppetto ed Andrea Balestri, vitale e ribelle Pinocchio, danno vita ad una storia del tutto diversa dal romanzo.
Lo stesso regista dichiarò in un’intervista, di aver voluto sottolineare il calore del rapporto padre figlio.
La fata (Lollobrigida) , non una bambina come nel testo, ha da subito un ruolo preciso: è la moglie defunta di Geppetto.
Tutti gli adulti sono meno malvagi degli originali, in particolare il Gatto e la Volpe (Franchi e Ingrassia), sono poveri imbroglioni da strapazzo, mascherati da gatto e da volpe che finiscono in miseria.
Non si percepisce nel film l’aura di moralismo del romanzo ed anche nel finale, con Pinocchio che sogna la libertà e Geppetto rassegnato a rimanere nel ventre della balena, Comencini dà la sua impronta personale.
Soltanto dopo molti anni mi sono riappacificata col burattino: ho capito perché lo trovavo così insopportabile: Pinocchio è una fiaba moderna,non una fiaba popolare.
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Bruno Bettelheim nel suo libro Il mondo incantato, sostiene che gli esseri umani raggiungono la maturità psicologica soltanto trovando il senso della propria vita, processo graduale di sviluppo parallelo dell’intelletto, dell’emotività e della loro interazione.
Perché ciò avvenga il bambino deve avere la certezza degli affetti, il supporto dell’ambiente e della letteratura.
Le favole moderne non servono a questo scopo, istruiscono, divertono o fanno entrambe le cose, ma non hanno alcun accesso ai bisogni più profondi del bambino. I genitori moderni, inoltre, preoccupati di proteggere i loro figli dalla paura, dall’angoscia e dagli eventi dolorosi, raccontano loro storie rassicuranti; questa protezione non inganna il bambino, il quale prova emozioni turbinose e contrastanti, spesso violente e distruttive.
Soltanto la fiaba popolare risponde a questi requisiti.
Nel racconto fiabesco, attraverso i simboli, si parla di morte, di vecchiaia, dei rapporti familiari, di figli che lasciano la casa paterna, delle difficoltà che si incontrano e di come ognuno debba superarle da solo: il senso dell’ esistenza.
I contenuti della fiaba devono essere chiari, semplici, polarizzati, ( bene-male, buono-cattivo, bello-brutto); ci sarà tempo per capire le infinite sfumature di queste categorie, per ora il bambino ha bisogno di chiarezza e di sentirsi alleggerito dai sensi di colpa per i suoi pensieri “cattivi”.
Per evitare di minimizzare questo dialogo del bambino col proprio inconscio, gli adulti che ne seguono la lettura, non dovrebbero affrettarsi a razionalizzare o attenuare la drammaticità della fiaba: la ragione non può nulla verso l’immaginazione.
L’origine della narrazione si fa risalire a due-tremila anni fa; fiaba e mito nacquero tra le popolazioni primitive, in luoghi della Terra molto lontani fra loro.
Non vi è accordo tra gli studiosi sui rapporti fra nascita della fiaba e nascita del mito, sull’ipotesi che la prima derivi dal secondo o su quella che mito e fiaba siano nati contemporaneamente, avendo ognuno le proprie peculiarità.
Secondo Levi Strauss “la fiaba è una trasposizione attenuata del mito, essendo sottoposta meno strettamente al criterio della coerenza logica, della ortodossia religiosa e della pressione collettiva”.
Tramandate per secoli oralmente e ampiamente diffuse nel Medio Evo, le fiabe furono raccolte e trascritte nel ‘ 600. Pochissime sono le fiabe note in confronto a quelle quasi del tutto sconosciute e soprattutto alle tantissime andate perdute.
Di volta in volta risentono di influssi religiosi, biblici, superstiziosi, sono raffinate ed elaborate oppure scarne ed essenziali a seconda che provengano da popolazioni ricche di scambi oppure di civiltà assai primitive ed isolate.
Propp definisce la fiaba un’invenzione poetica, che tuttavia segue scopi precisi: nel suo libro “Morfologia della fiaba”, l’etnologo russo arriva alla tesi di un’omogeneità strutturale di tutte le fiabe, che definisce “una sottile, elegante ragnatela” e le classifica a seconda degli intrecci, delle caratteristiche e delle funzioni dei personaggi.
In polemica con Levi Strauss, spiega come, per ogni opera d’arte, la forma sia indissolubilmente legata al contenuto e che pertanto la fiaba debba essere raccontata nella maniera più precisa possibile, affinché sia sempre riconoscibile.
Chiunque abbia letto qualche volta favole a un bambino, sa che egli vuole sentirle infinite volte con le stesse parole.
E questo vale anche per la poesia: ogni poesia può essere raccontata con altre parole da quelle scelte dal poeta, ma certo in questo modo essa perde ogni fascino.
Per lo stesso motivo le numerose trasposizioni cinematografiche delle fiabe, per quanto pregevoli, sono bellissimi spettacoli , ma non hanno niente a che vedere con “ una sottile, elegante, ragnatela”.
[1] Umberto Eco Diario Minimo, Mondadori, 1963
Bibliografia
Bruno Bettelheim. Il mondo incantato. Feltrinelli, 1975
Vladimir J. Propp. Morfologia della fiaba. Piccola biblioteca Einaudi, 1966
Claude Lévi-Strauss. La struttura e la forma. Riflessioni su un’opera di Vladimir J. Propp In : Vladimir J. Propp. Morfologia della fiaba
Italo Calvino. Sulla fiaba. Mondadori, Oscar moderni, 1996