di Patrizia Montani
Nel romanzo Guerra e Pace, Natasha, ascoltando un’antica melodia popolare, incomincia istintivamente a danzare. Così Tolstoj sintetizza poeticamente il ritorno alle origini, alla musica, alla lingua autenticamente russe. Alla fine del XVIII secolo, infatti, nella città di Pietroburgo, costruita interamente da architetti europei, la cultura e la lingua russa erano quasi del tutto sconosciute alla nobiltà; soltanto i servi e gli schiavi parlavano russo e conservavano le antiche tradizioni.
Nella seconda metà del XIX secolo, fino alla Rivoluzione di Ottobre, mentre il cuore pulsante del Paese si spostava da Pietroburgo a Mosca, scrittori come Cechov, Tolstoj e Gogol, riscoprirono le origini di ciò che era autenticamente russo.
Nelle comunità contadine ritrovarono lo spiritualismo, il misticismo, l’egualitarismo; l’“anima russa” portò a una vasta produzione letteraria, musicale e pittorica ad essa ispirata.
Alla vigilia della Rivoluzione la nobiltà colta aveva intensi scambi con l’Occidente, dove si leggevano i classici russi e dove la lettura di Dostoevskij andava di pari passo con la diffusione delle teorie psicoanalitiche di Freud.
Le profonde ingiustizie sociali, le deprivazioni cui erano sottoposti i contadini, il pesante tributo di vite umane da loro versato durante le guerre napoleoniche, portò molti nobili e intellettuali (tra i quali Tolstoj) a superare la visione idealizzata del contadino e ad abbracciare le utopie socialiste.
La comparsa sulla scena mondiale dei movimenti di avanguardia coinvolse anche la Russia negli anni della Rivoluzione, acquisendovi caratteristiche del tutto peculiari.
La reciproca influenza tra rivoluzione e arte, per alcuni anni sembrò dare vigore a entrambe. Lo spirito rivoluzionario incontrò l’avanguardia nel totale rifiuto della cultura russa e non russa del periodo precedente; Majakovskij bollò come paccottiglia estetizzante tutto ciò che era stato prodotto fino a quel momento. Anche le innovazioni tecnologiche furono un punto d’incontro tra politica e cultura: il modernismo, l’adozione delle macchine nelle fabbriche e l’incredibile fascino che esse esercitavano, sono documentati dal cinema americano dell’epoca (B. Keaton e C. Chaplin) molto conosciuto in Russia. Tuttavia l’anima russa si ritrova spesso nelle opere dell’Avanguardia, nella pittura di Chagall, nella musica di Stravinskij e di Shostakovic, nonché nei Ballets Russes nati dal genio di Diaghilev.
I futuristi, gli artisti di sinistra, gli uomini di teatro e di cinema, si proponevano di costruire l’uomo sovietico, modellandone la coscienza; i costruttivisti in particolare, si definivano “tecnici” oppure “costruttori “di abitazioni collettive, di oggetti di uso quotidiano, di manifesti di propaganda, rifiutando così di chiamarsi artisti.
Film con attori presi dalla strada, orchestre senza direttori, sinfonie con rumori industriali nel sottofondo[1], furono alcune delle sperimentazioni dell’epoca, non sempre comprese dai contemporanei. Celebre il fiasco di Chagall, il quale aveva dipinto per le strade di Vitebsk una mucca verde e un cavallo che vola.
Sul finire degli anni ’20, quando ormai l’arte russa aveva una dimensione sicuramente internazionale, vi fu una stretta da parte del Regime che impose la censura e, spesso, diede il via a vere e proprie persecuzioni di scrittori, musicisti, cineasti.
Nel 1928 Stalin approvò il primo Piano Quinquennale, col quale si proponeva di imprimere un’accelerazione allo sviluppo economico ed anche allo sviluppo della Rivoluzione Culturale: fu un attacco frontale all’ideologia borghese, nascosta, a suo dire, tra gli stessi intellettuali di avanguardia; ne furono vittime alcuni scrittori come Bulgakov[2] e Zamjatin[3], mentre, perfino Gorkij e Pasternak (amico personale di Stalin), erano guardati con sospetto.
Erano ormai lontani i tempi delle avanguardie rivoluzionarie impegnate a costruire una vera cultura proletaria. Tutti gli scrittori e i più importanti musicisti dell’Ottocento furono riproposti come antesignani del realismo socialista; nel centenario della morte, Puskin fu celebrato come “fondatore del comunismo”.
Il Cinema, che era stato definito da Lenin “la più importante delle arti”, fu umiliato con l’inondazione di film musicali, pseudo western, commedie romantiche e tutto quello che poteva diffondere ottimismo di regime.
Il cinema, strumento innovativo, agile e moderno, fu subito individuato dalla politica come mezzo ideale di propaganda anche tra le masse meno acculturate.
A differenza del teatro (un gioco, un semplice svago), esso è ritenuto, infatti, più realista, frutto di moderna tecnologia e quindi più attrattivo poiché si presta a essere proiettato in locali di fortuna, anche nei paesini più sperduti dell’immenso territorio nazionale. In questo modo si riteneva che avrebbe facilmente raggiunto i giovani, formandone le menti e sostituendosi a chiese e osterie, tradizionali luoghi d’incontro, svolgendo così un’efficace azione di propaganda politica.
In questo contesto Dziga Vertov, con sua moglie, suo fratello e un operatore, fondò il gruppo Kinok (kino–cinema e oko-occhio). Il gruppo girò vari film per gli agit-prop sovietici e, durante la guerra civile li diffuse portandoli col treno tra i contadini, proponendosi di “vedere e mostrare il mondo in nome della rivoluzione proletaria”.
Il kinoki, in sostanza, non vuole essere l’equivalente del “cinema vérité” europeo, cioè semplicemente naturalista e oggettivo, ma rimaneggiamento delle immagini in modo simbolico.
L’uomo con la macchina da presa è tutto questo, e soprattutto interroga lo spettatore sul che cosa sia veramente la macchina da presa: una finestra sulla vita oppure qualcosa che produce essa stessa una realtà?
In questo clima di fermento innovativo, nacque una nuova tecnica destinata a cambiare per sempre il cinema: il montaggio, ovvero la giustapposizione delle inquadrature al fine di creare reazioni emotive più forti.
Durante la guerra civile, dovendo risparmiare al massimo la pellicola, Kuleshov tagliava e assemblava gli spezzoni di film; così facendo si accorse che ciò dava maggiore efficacia alle immagini. Per dimostrare la validità della propria teoria, fece il seguente esperimento: montò la stessa inquadratura del primo piano di un attore con tre diverse sequenze, un piatto di zuppa, una salma di donna in una bara e un bambino che gioca; il pubblico “vide”, rispettivamente, la fame, il dolore, la gioia.
Lev Kuleshov, la cui notorietà è legata quasi esclusivamente all’invenzione del montaggio, fu in realtà un raffinato teorico del cinema[4], un regista notevole[5] e un grande maestro, alla cui scuola (l’Accademia del cinema di Mosca), si formarono registi come Pudovkin ed Ejzenstejn, i quali utilizzarono il montaggio, adattandolo ciascuno al proprio stile.
L’introduzione di questa tecnica portò alcuni cambiamenti sostanziali nella cinematografia: il contrappunto, contrasto tra suono e immagine, la velocizzazione del ritmo musicale e soprattutto cambiò la recitazione, accentuando la mimica.
Il famoso metodo Stanislavski, l’identificazione dell’attore col personaggio mediante la rievocazione delle proprie esperienze emotive, fu apertamente avversato da Mejerchold, il quale proponeva una preparazione fisica dell’attore, mediante esercizi ginnici, spesso acrobatici, mediante il ballo[6], la scherma etc.
D’altronde lo spirito del tempo era molto propenso a usare la tecnica in ogni campo: nascono i primi robot[7], il modernismo e vi è una fiducia assoluta nelle macchine, che diventano così ugualmente importanti in teatro, nel cinema e in fabbrica.
Ejzenstejn
“Un formicaio di reclute inesperte dalla faccia fresca si spostava lungo percorsi ben definiti con precisione e disciplina e lavorava in armonia per costruire un ponte… da qualche parte nel formicaio mi muovevo anch’io… era un semplice e armonioso modello di perpetuum mobile… meravigliosa euritmica polifonica esperienza di costruire qualcosa… accidenti se era bello! Il ponte di barche mi svelò per la prima volta un piacere che non mi avrebbe più abbandonato”.
Così Sergej M. Ejzenstejn scrive nelle sue memorie Come diventai un regista, riferendosi alla sua esperienza di ingegnere arruolato nell’Armata Rossa. Meravigliosa armonia che avrebbe sempre cercato di ricostruire nei suoi film di massa Sciopero e Ottobre.
La vastità degli interessi culturali, dal teatro alla letteratura, alle arti figurative, alla saggistica; la sua originalità stilistica di regista rivoluzionario, mai prono ai pressanti condizionamenti della politica, ne fanno un pilastro della cultura e del cinema internazionale.
Nato a Riga nel 1898 da famiglia ebrea russo-tedesca, studiò ingegneria a Pietroburgo e nel ’17 partecipò a una manifestazione bolscevica, durante la quale cecchini della polizia, appostati sui tetti della prospettiva Nevsky, spararono contro i manifestanti.
Nel 1920 a Mosca Ejzenstejn trovò un ambiente artistico straordinariamente innovativo e stimolante. Figure di primo piano dell’Avanguardia erano Mejerchold, studioso di Commedia dell’Arte e teatro Kabuki e autore di spettacoli teatrali molto stilizzati, il già citato Kuleshov, divenuto poi per breve tempo suo maestro, e Majakovskij (poeta, attore, drammaturgo). Con loro collaborò alla rivista LEF (fronte di sinistra delle arti), nella quale espose, in un articolo del 1923, la propria teoria del montaggio delle attrazioni, ovvero del montaggio concettuale, fatto in modo da creare emozioni scioccanti nello spettatore.
Il primo film nel quale il regista mise in atto questa sua teoria fu Sciopero (1924), nel quale fu usato anche il typage, l’attore preso dalla strada proprio perché non fosse di per sé un personaggio, ma rappresentasse un’intera classe sociale.
L’opera con la quale la fama di Ejzenstejn si diffuse in tutto il mondo per la forte carica rivoluzionaria in essa contenuta fu La corazzata Potemkin del 1925. Scritto per celebrare l’anniversario della rivolta del 1905, distorce sapientemente i fatti (nessuna sparatoria ci fu sulla scalinata di Odessa), con l’intento dichiarato di esaltare la Rivoluzione. Il montaggio alternato e rallentato conferiscono maggiore drammaticità alle scene.
Dopo il successo internazionale del film, il regista si recò a Parigi, Hollywood e Messico per lavoro; nessuna delle opere progettate in quegli anni fu portata a compimento.
Tornato in patria nel ’34, gli fu richiesto di girare film di propaganda (il clima politico era molto mutato); Ejzenstein cominciò a lavorare su un racconto di Turghenev, Prato di Bezin, ma poiché l’autore gli conferì un significato più psicologico e umano che politico, il film fu bruciato. Ne rimangono soltanto alcuni frammenti di straordinaria bellezza.
Nel 1938 S. Ejzenstejn girò un film, debitamente autorizzato, tratto da un melodramma ottocentesco, ispirato all’eroico difensore della Russia del tredicesimo secolo: Alexander Nevskij. Stilisticamente il film presenta grandi differenze con i precedenti: è un film sonoro, ha un impianto teatrale sottolineato dalla musica grandiosa e d’ispirazione wagneriana di Prokofiev, ma soprattutto il regista abbandona il montaggio e il contrappunto tra suono e immagine, operando al contrario una sintesi.
La pellicola ebbe successo e piacque anche a Stalin ma le proiezioni furono interrotte dopo il patto Molotov-Ribbentrop per le evidenti allusioni al Nazismo.
Nel ‘41 S. Ejzenstejn iniziò a lavorare a Ivan il Terribile; nelle intenzioni del regista, la pellicola, ispirata al Boris Gudunov di Puskin, doveva rappresentare la tragedia della tirannia (si era in piena repressione staliniana). La scena conclusiva avrebbe dato senso a tutto il film: lo zar si confessa davanti all’affresco del Giudizio Universale, mentre un monaco legge a voce alta la lista infinita delle sue vittime. L’opera fu autorizzata perché Ivan rappresentava per Stalin un modello: aveva lottato contro i Boiardi e aveva protetto il Paese dall’influenza straniera; inoltre la vicenda dello zar spiegava come, per Ivan e per Stalin, il fine di mantenere unito lo Stato giustificasse i mezzi, violenti, spesso spietati.
Ivan il terribile avrebbe dovuto essere una trilogia: la prima parte fu molto apprezzata e il regista ricevette un premio, ma le parti successive non videro mai la luce; poiché non furono mai approvate, né il regista volle mai cambiarle fino alla sua morte avvenuta nel ‘48.
La seconda Guerra Mondiale costò all’Unione Sovietica milioni di morti; quando i Nazisti entrarono sul suolo russo, Molotov in un discorso alla radio parlò di guerra patriottica per la terra natale, l’onore e la libertà. Si fece appello all’unità nazionale per battere il nemico e perfino la Chiesa fu coinvolta per meglio raggiungere la popolazione rurale. I rapporti tra cultura e politica furono alquanto diversi durante la guerra, il cinema abbandonò i temi cari al comunismo e si produssero più film di esaltazione degli eroi nazionali.
Nel settembre del ‘41 i tedeschi raggiunsero Leningrado e la tennero sotto assedio fino al gennaio del ‘44: 870 giorni, un milione di morti.
Shostakovic, rimasto a Leningrado, partecipò, in un primo periodo, alla difesa della città facendo il pompiere. Sotto le bombe e a lume di candela, incominciò la stesura della Settima sinfonia. Sfollato, poi, in una cittadina sul Volga, l’odierna Samara, completò la sinfonia di notte, su un pianoforte verticale piuttosto mal ridotto. Al mattino la Settima sinfonia fu completata e l’autore scrisse con inchiostro rosso la dedica “Alla città di Leningrado”.
L’opera, eseguita dall’orchestra del Bolshoi, fu trasmessa alla radio in tutto il Paese il 5 marzo del ’43 e successivamente molte altre volte all’estero, durante e dopo l’assedio.
Vi si legge certamente un omaggio alla classica bellezza della città, ma al di là della sontuosità trionfalistica, gradita al Cremlino, si avverte anche il tono malinconico della satira e del dissenso soffocato.
BIBLIOGRAFIA
-Orlando Figes. La danza di Nataša. Storia della cultura russa (XVIII-XX secolo). Piccola biblioteca Einaudi (traduzione di M. Marchetti), 2004
-Arnold Hauser. Storia sociale dell’arte. Piccola biblioteca Einaudi, 1956
-Gianni Rondolino e Dario Tomasi . Manuale di storia del cinema .UTET, 2014
-Pietro Montani. Avanguardia sovietica in Enciclopedia del cinema, 2003. Treccani.it
[1] Nella sinfonia numero 2 in si maggiore di Shostacovic, Ottobre, si ode la sirena di una fabbrica.
[2] I romanzi più contestati a Bulgakov furono Cuore di Cane e Uova fatali.[3] Noi di Zamjatin sviluppava il tema della meccanizzazione nelle fabbriche con la trasformazione degli uomini in macchine in un’ipotetica futura società assolutistica.
[4] Kuleshov scrisse diversi saggi di tecnica cinematografica, fra i quali L’arte del cinema, 1929.
[5] Film diretti da Kuleshov: Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi, 1924; Il raggio della morte,1925; Secondo la legge, 1926; Il grande consolatore, 1933.
[6] Metodo Delcroze, euritmica, musica e movimento.
[7] La parola robot, coniata in questo periodo, deriva dal russo -polacco robotat, lavorare.