di Gianni Sarro
ponzaracconta.it
Qualche tempo fa un sondaggio informale fatto tra noi amici che frequentiamo da tempo il Corso di Cinema della Libreria Tra le Righe ha fatto emergere C’eravamo tanto amati di Ettore Scola come il film più amato da tutti noi.
Avevamo considerato come criteri di merito la trama originale, le prove degli attori, l’analisi sociologica condotta e gli aspetti tecnici; inoltre la grande umanità con cui Scola tratteggia i suoi personaggi.
Per questo è con gioia che accogliamo uno scritto critico di Gianni Sarro sul film.
Ricordo che l’attuale facile fruibilità dei film per visione privata, anche dal televisore di casa, permette di recuperare “perle” del passato che non possono essere ignorate.
S. R.
C’eravamo tanto amati (film del 1974, diretto da Ettore Scola e interpretato da Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefania Sandrelli, Stefano Satta Flores, Giovanna Ralli e Aldo Fabrizi)
Una carrellata vorticosa attraverso trent’anni di storia italiana, rivissuta attraverso la struttura complessa che Scola impone al film dove si mescolano flashback, flashforward, fantasie ad occhi aperti, materiali di cinegiornali, rappresentazione teatrale.
C’eravamo tanto amati è un capolavoro assoluto dove l’incrocio delle vicende dei tre personaggi cardine (fateci caso essi sono anche voci narranti al contempo dei narratori interni ed esterni, come dimostrano anche gli sguardi in macchina): Antonio/Nino Manfredi, Gianni/Vittorio Gassman e Nicola/Stefano Satta Flores, produce una contaminazione tra dramma e commedia, parodia e denuncia sociale. La scelta di tre protagonisti serve a Scola per mettere in scena un film corale, raccontato da più punti di vista, come ci suggerisce il ripetersi per tre volte della sequenza iniziale, ogni volta con qualche fotogramma in meno all’inizio, e qualche fotogramma in più alla fine.
Scola per sintetizzare il crollo di tutte le illusioni avvenuto negli anni settanta sceglie il volto di Aldo Fabrizi, eroica maschera di Roma città aperta. In C’eravamo tanto amati, il regista distrugge l’aurea di martire per la libertà di Don Pappagallo, accentua e sottolinea notevolmente i caratteri somatici di Fabrizi, grazie alle sopracciglia foltissime e al ventre prominente sbandierato come un ariete. Disegna una vera e propria caricatura, quasi il regista fosse tornato ai tempi del Marc’Aurelio (*). Il risultato finale è che Fabrizi con i personaggi di Don Pietro e di Romolo Catenacci rappresenta il mutamento dei tempi, tra il dopoguerra e gli anni 70. Don Pietro è il simbolo delle speranze, per un futuro migliore, e non esita a subire il martirio, simbolicamente uguale a quello di Gesù, per il bene dell’umanità. Viceversa Romolo Catenacci rappresenta i 30 anni che sono passati dal 1945, le speranze che sono naufragate. Il corpaccione gargantuesco del palazzinaro – pescecane è l’emblema del disfacimento e dell’autoindulgenza dell’Italia degli anni settanta.
Un altro spunto di riflessione è il tempo del racconto. In C’eravamo tanto amati è l’imperfetto (come indicato dal titolo) un tempo che indica qualcosa d’incompiuto, di continuativo e la durevolezza dei sentimenti pende sul presente quasi sospendendolo. Tanto che non possiamo essere sicuri che i tre amici non si rincontreranno più. A finire è il tempo del film, non quello della storia (e della Storia).
Stilisticamente va sottolineato come molti avvenimenti importanti di C’eravamo tanto amati accadono fuori dall’orizzonte del nostro visibile. Un esempio è la scena in cui Nicola ritrova all’interno del chiosco fotografico le immagini abbandonate di Luciana/Stefania Sandrelli che ritraggono la donna all’inizio sorridente, poi via via, sempre più piangente, disperata e col trucco sfatto. Scola affida a questa successione di fotografie una funzione non solo tematica ma anche meta-cinematografica. La striscia di fotogrammi in sequenza allude al cinema e al suo funzionamento, del resto lo scorrere del tempo è uno degli aspetti essenziali del cinema in generale, e di quello di Scola in particolare (La terrazza, La famiglia, Ballando Ballando).
Infine una riflessione sulla posizione della macchina da presa. Accennavamo qualche riga sopra ad un altro film di Scola: La famiglia (1987). Anche quello era un film di Storia e di storie, e anche lì lo scorrere del tempo ha una parte centrale come in C’eravamo tanto amati, tuttavia emerge una differenza sostanziale: la posizione della macchina da presa, che ne La famiglia rimane imprigionata dentro l’abitazione del protagonista-patriarca, Carlo/Vittorio Gassman, gli ottant’anni narrati trascorrono senza che ci sia mostrata una sola immagine in esterni. Il cinema italiano si è rinchiuso, non riesce più a narrare la contemporaneità, ma neanche il passato.
Nanni Moretti, in Caro diario (leggi qui) sintetizza questa tendenza così: ‘Film dove c’è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un’isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone: mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza’.
Note
(*) – Il Marc’Aurelio fu una pubblicazione periodica satirica italiano fondato a Roma nel marzo 1931. Usciva due volte alla settimana: il mercoledì e il sabato. La rivista, non coraggiosa come il Becco giallo, era più orientata all’umorismo fine a se stesso che alla satira contro il fascismo, anche se non risparmiava battute e scenette al regime. Vi collaboravano le più illustri firme dell’epoca: Gabriele Galantara, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli (poi Age & Scarpelli), “Steno” (pseudonimo di Stefano Vanzina), Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Vargas, e molti altri, tra cui il futuro cineasta Ettore Scola, e il diciottenne Federico Fellini, che esordì sul bisettimanale come disegnatore satirico.
(**) – Stefania Sandrelli – Riguardando questa scena è impossibile non ripensare a quella del sottofinale di Io la conoscevo bene, di Paolo Pietrangeli. La protagonista è sempre la Sandrelli, il suo personaggio, Adriana, come Luciana in C’eravamo tanto amati, ama il mondo del cinema e vorrebbe diventare attrice. Dopo una lunga serie di delusioni, la vediamo seduta davanti ad un specchio, con le lacrime che scendendole sul volto le sciolgono il trucco. Quel film è sceneggiato, oltre che da Pietrangeli, da Scola, facile ipotizzare un’autocitazione, che tuttavia riserva un finale meno tragico.
(La storia raccontata dai film 7 – Continua)