Ci è sembrato d’obbligo pubblicare questo graffiante articolo di Paolo Di Paolo, uscito in data odierna su La repubblica .
SPETTACOLI
“Le parole sono importanti”
Palombella rossa trent’anni dopo. Il culto è anche social.
Il film di Nanni Moretti sulla crisi del Pci uscì nel settembre 1989.
Oggi molti di quei dialoghi storici sono diventati tormentoni sul web.
Sesto lungometraggio del regista, fu presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia e lasciò la critica disorientata.
di Paolo Di Paolo
Alla voce “meme”, il film di Nanni Moretti che stravince è Palombella rossa. Tra video e immagini animate rimasticate dal web, Ecce Bombo ha il suo spazio, ma il film del 1989 domina. Con botta e risposta caustici come: «Michele, io sono contento che tu esisti. Tu sei contento che io esista?» «No!»; con monologhi identitari come «Perché siamo uguali, anche se siamo diversi». Ma soprattutto con l’epica sfuriata sul linguaggio: «Chi parla male pensa male». Le parole sono importanti, sì: i social fanno eco al comunista pallanuotista Apicella, nel curioso (e logorroico) paradosso della
chiacchiera ininterrotta.
Non è una novità che dalla filmografia di Moretti si estraggano massime buone per uso pubblico e privato, ma ora che anche il regista ha un imprevedibile e autarchico profilo Instagram, interrogare la vita social del suo lavoro è interessante. Fra quanti hanno condiviso il meme di Apicella che, in accappatoio e cuffia, fa una smorfia di dolore quando la giornalista usa la parola “kitsch”, chi ha visto il film per intero? E quanti, se lo vedessero, ne sarebbero spiazzati?
Forse almeno come i primi spettatori di trent’anni fa. Il giorno in cui Palombella rossa arriva nelle sale, rivaleggiando con New York Stories del trio Scorsese-Coppola-Allen, i giornali parlano delle “troppe ricette del nuovo Pci” e dell’Urss che teme disordini a Berlino.
È il 15 settembre del 1989. Il film dell’allora trentaseienne Nanni Moretti, che interpreta un dirigente comunista colpito da amnesia, è stato presentato a Venezia, fuori concorso.
A Natalia Aspesi, che lo intervistava su queste pagine, Moretti parlò di latitanza della «tensione morale». L’accoglienza del nuovo lavoro del regista di Bianca è stupita e nervosa. Dal critico che si concentra su vezzi stilistici e singhiozzi narrativi a quello che imputa a Moretti di occuparsi troppo di sé stesso, è difficile trovare esperti che non sembrino un po’ disorientati.
Sarà che questo geniale film dell’89 diventa più chiaro l’anno dopo? Dopo la caduta del Muro, dopo la svolta della Bolognina, col solitario Occhetto che guida il vecchio Pci verso la trasformazione. Il 15 settembre del 2019, con le macerie del Muro lontane tre decenni, più che profetica, come spesso si dice, la verità del film risulta perenne. E non è solo politica.
Se qualcosa, in quei tardi anni Ottanta, stava finendo, non ha ancora smesso di finire. Le “malattie sociali” da cui Moretti/Apicella si proponeva di guarire (così Arbasino sul Venerdì ), se tali erano, non sono state debellate. Il popolo di sinistra, già allora disperso, sarebbe dura ricompattarlo anche davanti alla potenza mélo del Dottor Zivago.
E quell’estenuato «noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri» non potrebbe che chiudersi con lo stesso urlo: «Mammaaa! Vienimi a prendere!».
Anche nella stagione del governo giallo-rosa: tanto più rispetto all’ultimo decisivo rigore dell’interminabile partita di pallanuoto. «Guardo a destra e tiro a destra… non è forse meglio a sinistra, destra, sinistra…». E dalla lunga ipnosi a cui Apicella si sottopone per ricordare chi è, forse il personaggio è uscito: noi, di sicuro, no. «Ricordo – mi ha raccontato Moretti – che quando uscì Palombella rossa un giovane critico del Pci (non un vecchio trombone) scrisse che il mio era un film vecchio e che non era sul Pci di allora, il Pci di Occhetto, che non aveva certo una crisi d’identità. Già dopo due mesi crollò il Muro di Berlino e il Pci non esisteva più».
Il nuovissimo “vecchio” film continua a parlarci: con la faccia indimenticabile dell’allenatore Silvio Orlando («Marca Budavari!»); con Remo Remotti, a cui bastano due sguardi per farsi capire; con la povera, vessata giornalista “cheap”. E con i suoi improvvisi toni pastello, la piscina animata intorno a cui tutto gira, con l’infanzia che si affaccia di continuo come un’ossessione inevitabile («Le merendine di quand’ero bambino… I pomeriggi di maggio non torneranno più!»), i «ti ricordi?» da cui è assillato Apicella, nel suo forzato e impossibile amarcord.
Impressiona ancora la felicità espressiva, e la malinconia che resta in qualche modo leggera, se non allegra, comunque vitale, che di lì a qualche anno sarebbe esplosa in Caro diario.
Emiliano Morreale, in un saggio sulla malinconia morettiana, dice che comincia con Palombella rossa una riflessione sulla morte dell’infanzia, il vero tema di un film come La stanza del figlio.
A ogni modo, quell’uomo giovane e smemorato che cammina nervoso a bordo piscina ha l’aria di un sopravvissuto. Agli anni di piombo? Agli anni del riflusso? A sé stesso, e un po’ a tutto. Forse anche all’Italia. Trent’anni dopo, continua a sorridere – bambino e adulto insieme – mentre vede sorgere, nella scena finale, il sol dell’avvenire.
Il sole è di cartapesta e noi, di sicuro, abbiamo dimenticato qualcosa. Sì, ma cosa?
[Da la Repubblica del 15/9/2019]