di Letizia Piredda
La decisione di scegliere La Veritè , ultimo film di Hirokazu Kore’eda , come film di apertura della 76 Mostra del Cinema di Venezia, mi ha riempito di gioia. Mi piace pensare che sia stata una scelta lineare, genuina, di merito.
L’anno scorso abbiamo potuto vedere l’altro suo film Un affare di famiglia ( Shoplifters, che vuol dire taccheggiatori, ladruncoli) vincitore della Palma d’Oro a Cannes. Mi aveva colpito molto questo film , ne avevamo discusso con il gruppo di cinema, e sollecitata dalla discussione avevo buttato giù alcune righe di commento. Ve le propongo qui di seguito, in attesa di poter vedere La Veritè.
Ho letto con molto interesse i vostri commenti e le vostre riflessioni, che, in parte ho condiviso e in parte no.
Prima di iniziare il mio commento vorrei fare alcune precisazioni:
-Il Giappone è un paese che ha avuto una crescita economica spaventosa, ma che, a livello sociale è rimasto ai nostri anni ’60. Il divorzio, l’aborto, l’emancipazione della donna sono ancora mete da raggiungere.
-Il Giappone ha una forte tradizione, un radicato formalismo, le persone hanno modi molto gentili, ma per tradizione non si toccano (fanno l’inchino, ma non si danno la mano), considerano come atto scandaloso soffiarsi il naso, ma succhiano la zuppa facendo rumore (cosa che noi consideriamo poco educato).
-I film di Ozu, senz’altro studiati da Kore’eda, sono film stilisticamente bellissimi, che ritraggono la vita del Giappone con le sue tradizioni, tradizioni che non vengono mai messe in discussione.
Nella recensione di Sentieri Selvaggi, https://www.sentieriselvaggi.it/un-affare-di-famiglia-di-hirokazu-kore-eda/, in parte ripresa da Sandro, ho trovato molto bella l’immagine del film formata da un campo, che si protrae per ¾ del film (la famiglia di cui seguiamo le vicende e che vediamo anche presa dall’alto ->fuochi d’artificio) e un controcampo, che subentra nella parte finale (la società, le regole, l’ufficialità ma anche il formalismo). Nel campo vediamo una famiglia che, man mano scopriamo non avere legami di sangue, capace di accogliere e di stabilire un legame affettivo, che si prende cura di una bimba, violata dai genitori che si è nascosta dietro a un muro, per strada. Vediamo anche molte cose strane , dissonanti, e comunque fuori dalle regole: il papà che insegna al bambino a rubare nei supermercati, la ragazzetta che si prostituisce , i bambini che non vanno a scuola, la nonna che va a trovare una giovane coppia (il figlio) e si fa dare dei soldi……Ma l’abbraccio della donna con la piccola , l’affetto continuo del “papà” che cerca di farsi chiamare “papà” da Shota, la protezione della nonna verso la ragazza costituiscono il messaggio fondamentale del film: la famiglia è dove si riesce ad accogliere e farsi accogliere. E’ in questa umanità imperfetta che Kore’eda si riconosce , e che ci trasmette una grande serenità emotiva che culmina nella scena del mare, dove tutti insieme saltano le onde, mentre la nonna dice “grazie “ per non essere stata lasciata sola.
Poi d’un tratto sembra che tutto si capovolga: il controcampo cioè la legge, la polizia, i medici all’ospedale, prendono il sopravvento e ci mettono di fronte a una realtà insospettata, l’uccisione dell’ex marito di lei, il dialogo con l’assistente sociale, “non si può essere madri se non si partorisce”, il pianto di lei che cerca di asciugare con tutta la mano per un tempo interminabile, l’assunzione di colpa da parte di lei, il carcere, l’assegnazione dei bambini a una famiglia ritenuta “consona” dai servizi sociali o a quella di origine.
Sembra un ciclone che spazza via ogni cosa, che ci fa perdere in un labirinto di domande senza risposta, alla ricerca di una impossibile consequenzialità.
A Kore’eda non interessa, lui ha puntato tutto sulla verità degli affetti che restano nonostante tutto: Shota sul pullman si gira e quando vede Osamu che corre all’impazzata per raggiungerlo, mormora piano per la prima volta “papà”.
Yuri di fronte alla madre che pensa solo a truccarsi e che la costringe a chiedere scusa per un nonnulla, va verso il balcone e si mette in punta di piedi per guardare oltre, verso un abbraccio da cui si è sentita messa al mondo.