di Lorenza Del Tosto
Presentazione.
La nostra amica Lorenza fa la traduttrice (dall’inglese e dallo spagnolo) e frequenta per lavoro festival importanti, eventi letterari, presentazioni di film e libri. Da Venezia e Cannes in particolare, ma anche da altre manifestazioni cui partecipa, ci manda originali ritratti di registi, attori e scrittori famosi.
Per un periodo ha pubblicato questi suoi scritti su Mag-O, il Magazine di Omero (Scuola di Scrittura) in una rubrica apposita dal titolo appropriato: Lost in translation Dal link relativo – https://www.omero.it/omero-magazine/lost-in-translation/ – si può accedere all’indice e ai singoli articoli (in pagine successive) che per la varietà dei nomi, dei temi e della particolare angolazione del suo modo di raccontare potranno procurare autentiche sorprese…
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E’ felice Pedro Almodóvar, o più che felicità, è l’appagamento di chi ha compiuto una grandissima impresa, di cui solo lui conosce il prezzo, il rischio e la precarietà, come un padre che porti la cena a casa la sera, pietanze squisite e, seduto a tavola, sorrida lasciando che tutti festeggino, per una sera ancora, ignari del pericolo che incombe.
E’ solo un’idea, un’impressione che ci sta passando per la testa.
Almodóvar d’altronde, lo dice sempre, con un guizzo negli occhi: “Incertezza è la parola del cinema.”
E la solitudine, così presente in Dolor y Gloria, il suo ultimo film, a cui lui sempre accenna e su cui nessuno mai, stranamente, si sofferma forse è proprio questo: essere l’unico a conoscere il costo della propria sopravvivenza.
“Convivo costantemente con un fantasma: la perdita dell’ispirazione e l’impossibilità fisica di continuare a girare film; è la paura più grande della mia vita: non provare più un giorno la passione che mi spinga a raccontare una storia.”
Un’ossessione da cui è impossibile liberarsi. Cosa gli dici? Pedro non ti preoccupare, ce l’hai fatta anche questa volta, dicono che sia il tuo film più bello, l’ispirazione non ti è mancata. Ma sarebbe inutile, perché il timore è sempre lì: dà colore al successo di adesso. Che è diverso da quello dei suoi grandi film del passato, proprio per la paura che il trascorrere degli anni ha reso più intensa e più grumosa, che forse appartiene a tutti i grandi, ma a lui sembra appartenere in un modo più intenso o più sincero.
Sono tutte divagazioni nostre, mentre ce ne stiamo seduti in una grande terrazza di un albergo di Cannes, accanto a lui che, pantaloni rossi, maglia jacquard gialla e verde e un fazzoletto al collo, cerca gli angoli più in ombra e più protetti lontano dalle correnti e dall’aria condizionata. Dolor y Gloria è in concorso al Festival e i giornalisti, da tutto il mondo, accorrono a intervistarlo.
La terrazza ha colori almodovariani e lampade di metallo a forma di palma d’oro, dai bordi così taglienti che bisogna fare molta attenzione a non finirci addosso, e affacci splendidi sul mare che oggi è azzurro come il cielo e risplende di barche e di vele. A tratti arrivano le voci da sotto: le televisioni appostate a rincorrere i talents, la musica sulla spiaggia, ambulanze per un breve istante rumorose prima di perdersi lontano, fanciulle smaglianti e scollate, tutta la grande kermesse del cinema che qui arriva attutita. E, appollaiato su una sedia altissima, quasi un trampolino, sul mare, c’è Antonio Banderas, superbo protagonista del film: è così intenso nella sua interpretazione malinconica e sofferente di Salvador Mallo: regista famoso, ora in declino personale, fisico e creativo, alter ego di Pedro Almodóvar che fa impressione e quasi dispiace, vederlo di nuovo trasformato in Banderas, bello e sorridente, arrivato con il suo aereo personale in compagnia della fidanzata.
Pantaloni bianchi e maglia azzurro chiaro, le spalle leggermente curve, dietro cui si stagliano cielo e mare, con esuberanza latina stemperata dalla cortesia si riversa generosissimo nelle risposte.
E’ il lato luminoso delle cose.
“Non so cosa sia successo, lo dicevamo a tavola, non sappiamo come si sia creato un tale stato di grazia durante le riprese. Il cinema è una cosa strana, non sai mai perché le cose funzionano.” E muove le dita nell’aria come a far combaciare le parti di un oggetto invisibile, dal meccanismo perfetto. “Pedro ha questa capacità. Bisogna essere delle persone di un certo tipo, avere un certo sguardo sulle cose, ma non basta.
”Banderas è il suo Mastroianni, sussurrano voci, e Dolor y Gloria è il suo 8 e mezzo ma Pedro Almodóvar si schermisce e, insieme, sorride lusingato. Non vuole e non può sostenere il paragone con Fellini ma certo c’è un bambino, ci sono le lenzuola che ondeggiano e il tema è simile: due registi che da una disperazione, un’impossibilità di fare l’unica cosa al mondo che a loro interessa, traggono creazione e salvezza.
Si schermisce, ma con Vincenzo Mollica, che sta perdendo la vista, ne parla. “Ora ho scoperto che un film si può anche ascoltare.” gli dice Vincenzo “Bisogna perdere qualcosa per guadagnarne altre.” Sembra che conosca la sua paura e voglia rassicurarlo : io che vivevo di cinema sto perdendo gli occhi, eppure eccomi qua, il tuo film sono riuscito ad amarlo lo stesso. Non avere paura: ogni perdita ti porterà un guadagno. Pedro Almodóvar è, con lui, infinitamente gentile, lo è sempre stato anche quando Vincenzo Mollica ci vedeva come tutti. Seduti sullo sfondo del cielo azzurro purissimo, mentre sulle loro teste volano e stridono i gabbiani, i due, gravati dai loro acciacchi, parlano di perdita e di comuni passioni: Mina e Fellini.
“Fellini una volta mi ha detto: Vincenzo l’unico vero realismo è quello dei visionari” “Sì , certo: chi ha il coraggio di parlare dei suoi sogni è il più realista di tutti” conferma Pedro e racconta di Mina, che lui ascoltava già da bambino, alla radio, al paese, e di Come una sinfonia, la canzone di lei, che accompagna e sembra fondersi in un tutt’uno con la scena bellissima del primo desiderio, conferendole un sapore di sole, di estate pigra, di cose belle. Come i ricordi luminosi dell’infanzia che fanno da contrappunto al dolore del presente: come la scena a cui il film subito corre, in apertura, di lui e sua madre che lava i panni al fiume insieme alle altre donne . “Il ricordo più felice della mia infanzia” dice Pedro Almodóvar con una luce infinita negli occhi.
Ma c’è una madre in Dolor y Gloria diversa da quella da lui spesso evocata nei suoi film: qui è figura con cui fare i conti. Una madre che gli dice: non sei stato un bravo figlio e a cui lui può solo rispondere: non sono stato il figlio che volevi, perché sono stato ciò che sono. Uno dei momenti più struggenti del film:
“A volte i rapporti madre e figlio sono così nonostante il grande amore e non è colpa di nessuno: né della madre, né del figlio. In questo film c’è la crudeltà di certe madri, soprattutto in tarda età, che hanno vissuto una vita dura. Una madre degli anni ’60 che, in Spagna, erano anni di estrema povertà, umiliazioni e precarietà. Non credo che ce l’avessi con mia madre, credo che la scena abbia a che fare con un senso di estraneità e di non accettazione da cui mi sono sentito circondato nell’infanzia. Poterne parlare è stato balsamico.”
E ora Vincenzo si congeda.
“Grazie, Pedro, per questo film che è arrivato bellissimo nell’oscurità in cui vivo” dice prima di andar via accompagnato, nella sua penombra, da mani gentili.
Intanto Antonio Banderas appollaiato laggiù, sullo sfondo del mare, aggiunge altre luci:
“Ogni giorno, prima di iniziare a girare, Pedro ama leggere agli attori le sue battute, le legge come vorrebbe che fossero dette, per quello che per lui significano, ma la mattina che doveva leggere le mie battute con la madre, seduti in terrazzo, lui inizia a leggere, e si blocca, proprio non ce la fa, inizia e si blocca e io gli ho detto: ho capito Pedro, ho capito cosa vuoi dire.”
E continua:
“Le persone si identificano tanto in questo film, forse perché tutti nella vita abbiamo conti in sospeso: con una madre, con un grande amore finito quando era ancora vivo e intenso. Io e Pedro ci conosciamo da sempre, abbiamo vissuto insieme gli anni della Movida, ma non ho mai saputo che si teneva dentro tutte queste cose. E’ stato incredibile: a mano a mano che il film andava avanti, a mano a mano che Pedro chiudeva i conti” e di nuovo Banderas muove le mani nel sole indicando un vuoto che si colma, qualcosa che fa clic “e si riconciliava con il suo passato, diventava sempre più leggero, alla fine c’era un Pedro felice.”
Normale, quindi, che la domanda che più ricorre, la più scontata è: quanto c’è di verità e quanto di finzione. Quante cose sono accadute realmente nella sua vita e quante avrebbe voluto che accadessero?
Almodóvar si presta con pazienza al gioco delle percentuali: “Diciamo che c’è un 40% di realtà, e un 100% di emozioni reali. Quando scrivo io parto sempre dalla realtà, ma subito si crea la distanza. Il computer crea la distanza e la finzione impone le sue regole: l’importante è che il racconto risulti verosimile. Per me la vita, la mia stessa esistenza, tutta la realtà hanno senso solo come fonte di ispirazione. La realtà in sé non mi interessa, né la mia vita.”
Una dichiarazione fortissima, che scorre via nel flusso delle interviste, i tempi sono sempre così stretti. Bisogna correre di qua e di là e quest’anno i giornalisti sono affranti: Cannes impone orari assurdi che rendono difficile il lavoro.
Una settimana a Cannes, ha detto Pedro, metterebbe a dura prova anche Superman sebbene poi non c’è pubblico più caloroso di quello del Grand Palais, aggiunge, e lui aspetta la sera della proiezione per ascoltare ogni respiro in sala, e da quei respiri capirà l’essenza del suo film. “Un film lo conosci bene, lo hai scritto, lo hai girato, eppure resta un mistero cosa provocherà nella gente. In strada le persone un tempo mi imploravano di fare nuove commedie. Ora sono contento che abbiano accettato il mio cambiamento: sobrietà e austerità. Mi piace lavorare sulla sottrazione, adesso. Forse lo accettano perché mi vedono fragile, vulnerabile e questo crea empatia.”
“E’ un film pieno d’amore” gli dicono, “quanto amore c’è in questo film” e lui ci tiene a precisare, quasi a proteggersi: “Sì, ma soprattutto amore per il cinema.”
Il cinema è al primo posto. Questo mare che scintilla divino, la coloratissima folla, la fila di devoti, la venerazione che trapela dagli occhi dei suoi attori, la gloria appunto non sono nulla se non offrono ispirazione.
Solo in un film ha detto cose che i suoi amici ignoravano. “Ci conosciamo da anni e di lui non sapevo nulla” ha detto Banderas: per il quale, invece, il cinema non viene al primo posto, nossignore.
“Io amo la vita. Me la voglio vivere tutta fino in fondo, assaporarne ogni istante, soprattutto da quando, un anno e mezzo fa, ho rischiato di perderla.”
In Dolor y Gloria nella scena della cineteca, per un breve momento che non altera l’austerità del film, torna il tono da commedia. L’ironia impagabile, meravigliosa, appena accennata di quella scena è un’isola di sole nel dolore del film, un immenso sprazzo di allegria irriverente. Che ancora affiora a tratti, in lui, durante le interviste, si insinua nel dolore fisico, lambisce la sponda più dolorosa della vita. L’ironia dietro ogni cosa come se l’austerità fosse una facciata, una protezione.
Austera e insieme struggente è l’evocazione, nel film, degli anni della Controcultura in Spagna (dal ’77 all’84 ) che quell’ironia hanno alimentato e rappresentato.
“Anni evocati ma non descritti” come ci tiene a puntualizzare “Mi piacciono i messaggeri nel film: la pièce teatrale racconta ciò che il protagonista non ha la forza di dire. Come la sonata d’autunno in Bergman: una sonata che serve alla madre a parlare alla figlia.” Anni evocati nell’eroina che in quegli anni imperava, nei quadri, negli oggetti in ogni dettaglio della casa di Salvador Mallo, copia fedele della casa di Pedro, quegli anni sono lì, impregnano il film, come fondi di caffè, come un deposito di libertà, un omaggio grandissimo a quello che di buono hanno dato.
“Si faceva tanto uso di eroina, ancora non se ne vedevano gli effetti devastanti. Solo dopo si è cominciato a vedere cosa succedeva. Io non l’ho mai presa. Prendevo cocaina, questo sì. Ho visto morire gente attorno a me. Io mi sono salvato grazie al cinema perché ero sempre il primo dei miei amici a tornare a casa la notte, tornavo prima perché volevo lavorare e fare cinema e non potevo contare su niente e su nessuno, ma solo sulla mia disciplina.”
L’ossessione e la paura tornano per un istante come un barbaglio negli occhi: il cinema che lo ha salvato allora, continuerà a salvarlo ancora da qualunque sia adesso il pericolo? Forse la solitudine o forse altro, perché nonostante le confessioni di questo film Pedro Almodóvar resta un mistero di tenerezza, e di rigore estremo. Sfuggente, imprendibile.
“A nove anni già avevo chiaro che avrei voluto fare cinema, a quell’età pensavo che fossero gli attori a fare tutto, poi a quattordici anni ho capito che c’era qualcuno fuori che scriveva il film e qualcuno che lo dirigeva, e ho deciso che sarei stato io quello fuori che muove i fili. Ma non avevo i mezzi, ero come…” – e sorride con il suo sguardo maliziosissimo – “uno nato in Giappone che voglia fare il torero, ho cominciato con i Super 8, ma ero sicuro che avrei fatto film assolutamente underground, è stata una sorpresa vedere che avevano successo. Erano nello spirito del tempo, oggi sarebbe diverso, c’è molta meno libertà nella gente.”
Alcuni dei giornalisti vorrebbero conoscere i segreti della struttura di Dolor y Gloria, in apparenza semplice e fluida, in realtà un gioco di madeleine proustiane. Come l’ha ideata?
Lui sorride nel tentativo di spiegare il mistero della creazione, della sua creazione:
Io scrivo sempre delle storie che se ne stanno lì in attesa di un film in cui entrare.” E ridendo chiede: “Si può dire “stories that hang around in my computer?” Sì sì ride il giornalista americano che forse non ha trovato risposta alla sua domanda sulla struttura, ma che è comunque felice di essere qui in sua compagnia.
Almodóvar gli spiega che per accompagnare lo spettatore nei passaggi temporali, per aiutarlo a non perdersi, c’è comunque sempre la musica, perché l’amore per il cinema è fatto anche di cura meticolosa della musica: un lavoro infinito di ricerca, fino a trovare la perfezione. “Perché la musica” dice Pedro “deve essere qualcosa di organico al film, deve nascere dallo sguardo degli attori sulla scena.”
Di solitudine si parlava: ma come suona strana questa parola oggi, qui, sulla terrazza, tra tanta gente che lo accompagna, figure fedelissime al suo fianco, e pile di riviste che lo hanno in copertina: Dolor y Gloria è ovunque, e tra la folla Almodóvar è come un magnete, come un sensore di vita seduto nella zona più in ombra dei divani per proteggere i suoi occhi sofferenti.
E un’immagine ci resta impressa, lui seduto a tavola, tra il candore delle tende e delle tovaglie, il sorriso dei camerieri, e fanciulle eteree e Antonio Banderas che seduto davanti a lui racconta storie della sua vita privata mentre altri prendono appuntamenti, si informano se Penelope è arrivata. Il suo occhio abbraccia la presenza attorno della sua famiglia, persone che lo accompagnano da sempre. Anche per oggi il pranzo è servito: gli ultimi attori sono appena arrivati. Sono tanti nel film, e tutti in stato di grazia, nati apposta, sembrano, per incarnare le passioni, i desideri e i ricordi del regista come se la luce della memoria li alimentasse. Giurano tutti di voler essere in sua compagnia per sempre, dicono che da lui hanno avuto una lezione di vita: mettere tutto se stessi in ciò che si fa, fare le cose con l’anima tutta, e sperano che lui li voglia con sé per sempre. Siedono a tavola, si muovono tra le tende e la luce, parlano, ridono nella brezza, si commuovono nel sole. Tutto per lui, per l’uomo seduto a tavola: attorno la vita si muove e scorre finché si creerà l’immagine da cui prenderà inizio la sua nuova storia.